set 6, 2006 - Senza cicatrici No Comments
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Cinquanta.
I palloncini con sopra i colori sgargianti, le scritte con i pastelli, gli affetti, i muri dipinti di una casa che era la tua, che è la tua, lo è stata ma non ne conosci più i profumi.
Cinquant’anni sono tanti, osti. Sono mezzo secolo di storia. Ne succedono che neanche riesci a tenerne il conto. Cinquant’anni sono troppi.
Mio padre ieri sera aveva un sorriso che di solito nasconde.
C’erano tre torte, la famiglia, quella larga, le candeline che suonano un happy birthday monofonico e le immancabili foto con il flash da occhi rossi.
No, non sono convinto abbia cinquant’anni. Non è fatto per quest’età.
Sono sicuro che ne ha trenta, ne ha sempre avuti trenta. Nella mia testa non ha quel grigio accanto alle tempie, non ha quelle guance paciocche e smunte.
Già ogni tanto pensare che ne avesse più di quaranta mi era un incastro difficile. Ma cinquanta non è comprensibile.
Poi anche io faccio la foto.
A due centimetri da lui, mi accovaccio per rientrare nell’obiettivo.
E divento adolescente. Con il motorino scassato, i soci, la voglia di patente B.
E m’accorgo della sua manona che mi sembra m’avesse raddrizzato la schiena giusto ieri.
Tu non mi capisci, nessuno mi capisce, io prendo e vado.
Non raccontarmi balle, tu al massimo hai trent’anni, pa’.
No, trent’anni gli hai tu.
Agosto ’76.
Settembre ’56.
L’anagrafica è dogma.
Io trenta, lui cinquanta.
Dove sono finiti questi anni, dove ho lasciato i capelli lunghi e la radio?
Perchè non lavoro più in cantiere?
Perchè non ho una famiglia, non ho una casa, non ho la mia utopia degli anni ottanta?
Come hai fatto a volermi bene fino ad ora? Perchè non ti incazzi?
Tu non hai cinquant’anni, l’imbroglio è immenso.
Cinquant’anni sono tanti, osti. Sono mezzo secolo di storia. Ne succedono che neanche riesci a tenerne il conto. Cinquant’anni sono troppi.
Mio padre ieri sera aveva un sorriso che di solito nasconde.
C’erano tre torte, la famiglia, quella larga, le candeline che suonano un happy birthday monofonico e le immancabili foto con il flash da occhi rossi.
No, non sono convinto abbia cinquant’anni. Non è fatto per quest’età.
Sono sicuro che ne ha trenta, ne ha sempre avuti trenta. Nella mia testa non ha quel grigio accanto alle tempie, non ha quelle guance paciocche e smunte.
Già ogni tanto pensare che ne avesse più di quaranta mi era un incastro difficile. Ma cinquanta non è comprensibile.
Poi anche io faccio la foto.
A due centimetri da lui, mi accovaccio per rientrare nell’obiettivo.
E divento adolescente. Con il motorino scassato, i soci, la voglia di patente B.
E m’accorgo della sua manona che mi sembra m’avesse raddrizzato la schiena giusto ieri.
Tu non mi capisci, nessuno mi capisce, io prendo e vado.
Non raccontarmi balle, tu al massimo hai trent’anni, pa’.
No, trent’anni gli hai tu.
Agosto ’76.
Settembre ’56.
L’anagrafica è dogma.
Io trenta, lui cinquanta.
Dove sono finiti questi anni, dove ho lasciato i capelli lunghi e la radio?
Perchè non lavoro più in cantiere?
Perchè non ho una famiglia, non ho una casa, non ho la mia utopia degli anni ottanta?
Come hai fatto a volermi bene fino ad ora? Perchè non ti incazzi?
Tu non hai cinquant’anni, l’imbroglio è immenso.
Io dovevo essere altro adesso, tu non sei rimasto quello.
Ci pigliano per il culo, pa’.
Lasciali perdere, non stare ad ascoltarli.
Lasciamo la festa, andiamocene sul camion.
Riportami a scaricare i forati.
Direzione Milano.
Tu guida come sempre, io resto sul sedile accanto.
Anzi, mi incastro giusto dietro al sedile, fra il cartello del carico sporgente e la cerata unta di grasso per scacciare la pioggia.
Come la prima volta, che ero uno scriciolo: neanche un chilometro e m’addormentavo come in una culla.
Se passeremo troppo tempo insieme, basterà cambiare disco al tachigrafo.
Cinquant’anni.
Trent’anni.