giu 10, 2009 - Senza cicatrici No Comments
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Ho perso lo sguardo.
Mi testa la nuca al solco dell’orecchio.
Per questo sto più del solito attento.
Metti che me ne esco da me stesso,
faccio un giro d’universo
e poi torno più tonto che sguercio.
Ogni musichetta da ritornello
contiene una campanella di appello:
potrebbe esser l’ultima del fisico
o la prima del bilico.
Così ascolto teso
parole sanscrite
fuse in lingue baltiche
e quel che traduco
è pane
del mio vicino glaciale.
Non ho una dimora fissa,
non ho un tempo determinato,
non ho neanche un callo bucato:
indi vado.
Senza timone,
senza rumore
ma con il tra dei capelli
un fiore dal campo raccolto
al sorgere cobalto del sole.
Il profumo del legno
invade il prossimo bosco
dove svernerò il mio affetto.
Brace che tace,
fusa dolce su tende
lieve per sempre.