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Duole di medesima desinenza.
Coffee Shop e vetri appannati.
Al nascosto per darmi sfogo mi restringo fra quattro mura per urlare la mia ira.
Non è depressione, non è tristezza, non è incomprensione d’essenza.
E’ solo mancanza di coraggio nel cercarsi diversa, è la discesa della scelta, la debolezza dell’erba medica.
E’ la scusa come difesa di una nullità d’offesa.
Niente si altera, niente reca danno e se m’incazzo non è per il mio fegato malato o per la voglia d’estirparmi il cavillo della morale, che tanto vale quel che vale.
E’ perchè sei l’unica persona che pagherà di tutto questo un pegno: nè io nè ness’altro al mondo sarà più un tuo bersaglio dentro, un giorno.
Neppure vale l’incomprensione tattica: per scontato che sia codifico decriptando anche se non ce n’è un grammo di vanto: ti si capisce eccome.
Ti si capisce a tal punto che questo ‘?’ non è fatica d’entrarti dentro, ma una mancanza di tua ammissione.
Non bisogna capirti.
Bisogna che tu capisca.
E che, per conseguenza chiamata rivoluzione, prenderne coscienza ed essere fulcro che di te eleva se stessa.
La vecchia solfa: com’è che tutto il resto funziona ed io invece.
Più grossa è la possibilità di uno scudo di scusa
e migliore sarà il nascondiglio.
Qui nessuno accusa: io gli indici non li punto, al massimo li trovo utili in lettura per riorganizzare la vita.
Se la risposta è dura beh, non è una rabbia, non è una gioia, non è una seppur utile ramanzina.
E’ più che una medicina, è una cura.
Prescritta da osservare, difficile da accettare, doverosa per migliorare.
Per te, inaccettabile.
Ma fra un tempo che non ha tempo la speranza di chi ti ama è quella che ti riguarderai dentro, con appeso al chiodo il guinzaglio dell’impulso accanto a quel collare che ti strozza la voglia, e sorridendo farai quello che da solo ti varrà il senso del tuo passare in questo universo.