Scende il cielo anche stasera mentre attraverso senza guardare le strisce d’oro sulle ali.
Bevo un caffè e accarezzo i bottoni d’argento che mi stringono le cicatrici.
Poso la pala e scavo.
Traccio le tracce nel muro, prendo la mazzetta, lo scalpello e picchio.
Prendo l’ultimo pezzo di biscione in gomma dell’autopompa: cambio gli stivali del gatto con quelli da pescatore.
Mi imbogo nelle gabbie di ferro.
Mi casca il tenaglio, mi scivola sotto al pannello di due metri.
Appoggio lo stesso pannello di legno sopra dei cavalletti rauchi: prendo il pennello, quello grande per dipingere una parete grande, lo impregno di impregnante e lo passo sul suddetto pannello.
Anzi no, prima devo afferrare la cazzuola al contrario e scrostare il cemento secco dell’ultima gettata.
Vado a prendere le cravatte per la festa: a lame di 4 con dell’acciaio a cuneo le incastro in distanza di 40 centimetri.
Misuro col metro di legno.
Puntelli.
Mi mancano i puntelli.
Vita e svita e stringi.
Taglierina e legno.
Mi manca pure il chiodo di acciaio temprato per entrare nel fresco del cemento armato.
Mi manca infine il pizzico dello spago rosso che segnala le tracce per terra sulla nuova soletta.
Forati, da quattro, da otto, conci per conciarmi senza pensieri.
Borsa per il martello.
Togliere tutti i chiodi dalle assi.
Un sacco di calce ed uno di cemento, impastare.
Betoniera.
Attenzione con la gru, colpi secchi e niente ondeggi che ti cade la vita addosso.
Vibrare il fischio di avviso, mangiarmi un cotecchino.
Pulirsi il culo con l’interno della carta dei sacchi di malta.
Tagliare i conci con la pinza grossa, isolare il tetto, camminare sul ponteggio.
Falsi telai, umidità e bidone del ferro col fuoco dentro.
Acqua ghiacciata nei tubi, abbronzatura abbrustolita che ti si riconosce.
Matita sbucciata per segnare le pareti di misure precise.
Tavolati sbagliati, tavolati storti, tavolati perfetti.
Piccone e badile per raccogliere sudore, altro che rime.
Bagnare la platea, stongiare liscio e perfetto.
Controllare l’assenza della curva sulle assi da 4 metri.
Sentirsi parte del progetto oleoso di un antico capocantiere.
Puzzare, gustare, sognare.
Mi manca la tecnica,
abbondo di inutile estetica.